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Cos’è l’Astaxantina: il super-antiossidante

Cos’è l’Astaxantina: il super-antiossidante

Formula chimica astaxantina

La Formula chimica astaxantina

 

Scopri le proprietà dell’astaxantina ed i benefici che può dare questo potente antiossidante, indispensabile d’estate

L’astaxantina è una molecola appartenente alla classe dei carotenoidi, pigmenti molto diffusi in natura in alimenti sia di origine vegetale che animale. La sua importanza in ambito nutraceutico cresce sempre di più con il susseguirsi di studi che ne confermano le numerose virtù, nonché i disparati ambiti di utilizzo nella prevenzione e cura di svariate patologie croniche e infiammatorie.
In questo articolo tratteremo nello specifico la sua valenza come potente antiossidante e integratore nel contrastare il fotoinvecchiamento.
Conosciamola meglio, quindi.

I CAROTENOIDI

fonti vegetali di carotenoidi

Fanno parte di questa categoria di composti circa 500 diverse molecole organiche presenti nel regno vegetale (alghe e piante) e animale (uno su tutti, il salmone, ma anche il fenicottero rosa – ad entrambi conferiscono il tipico colore).
Si tratta di sostanze dal colore giallo-arancio o rosso, divise in carotenoidi primari e secondari.
I carotenoidi primari sono implicati nel dissipare l’energia in eccesso derivante dalle radiazioni solari durante il processo di fotosintesi colorofilliana, pertanto hanno lo scopo di controllare il metabolismo energetico delle piante che producono clorofilla. I secondari invece vengono immagazzinati in micelle oleose e stoccati nelle cellule vegetali come protezione dall’esposizione a fattori stressanti. Negli animali i carotenoidi non vengono sintetizzati bensì introdotti per ingestione di fonti vegetali che ne contengono.
La peculiare struttura chimica di queste molecole fa sì che siano in grado di assorbire l’energia radiante del sole e/o stabilizzare l’azione di specie chimiche altamente reattive quali i radicali liberi.
Membrana cellulare con astaxantina
Fra i carotenoidi, possiamo annoverare due classi diverse di sostanze:
  • I carotenoidi propriamente detti (α e β carotene, licopene)
  • Le xantofille (zeaxantina, luteina e astaxantina)
L’essere umano non è in grado di produrne, pertanto la disponibilità di queste sostanze è condizionata dalla dieta. L’astaxantina può essere introdotta principalmente attraverso il consumo di verdure, frutta e salmone ma a onor di cronaca, specie se si tratta di animale d’allevamento, la quota necessaria per un beneficio in termini di salute è assolutamente impossibile da ottenere (si pensi che per raggiungerla occorrerebbe mangiarne da 600 grammi a due chili al giorno!)
Nonostante ciò, la supplementazione con integratori risulta molto efficace perché già ai dosaggi minimi (dai 4mg ai 20mg/die) la sua biodisponibilità risulta molto alta in virtù della predisposizione all’assorbimento.
L’astaxantina viene assimilata meglio se assunta in concomitanza con il cibo e con sostanze grasse (es. olio di oliva), pertanto se ne consiglia l’uso sempre a stomaco pieno. A livello intestinale viene inglobata in vescicole dette chilomicroni e trasportata al sistema linfatico, il quale la veicola al fegato dove viene coniugata alle lipoproteine a bassa densità (le tanto temute LDL delle analisi del sangue!) che a loro volta la trasportano ai tessuti, in particolare a quelli più soggetti agli stress ossidativi come il cervello e la pelle.
La fonte che assicura la migliore astaxantina è un’alga verde, l’Haematococcus Pluvialis.

AZIONE ANTIOSSIDANTE

Donazione elettrone

Per azione antiossidante di un qualunque composto chimico si intende la sua capacità di ritardare o inibire significativamente l’ossidazione di altre sostanze presenti nello stesso ambiente di reazione.
Sì, ma che significa?
Significa fermare il domino di reazioni chimiche che normalmente si verifica quando una specie fortemente instabile viene a contatto con altre molecole, danneggiandole. 
Il nostro organismo ha la capacità di sintetizzare molecole con questa specifica finalità, al fine di contrastare le alterazioni cellulari (invecchiamento, danni al dna, morte cellulare) indotte da stimoli ossidanti (sostanze chimiche e radiazioni, comprese quelle solari). Di norma, si genera un equilibrio fra specie ossidanti e specie antiossidanti (o riducenti), ma in determinate condizioni può instaurarsi uno squilibrio (stress ossidativo) dove le specie reattive sono in maggioranza e/o le difese organiche sono carenti.
Per questo è utile introdurre attraverso la dieta sostanze antiossidanti come i carotenoidi (licopene dai pomodori, carotenoidi da carote, albicocche etc.) e fra questi l’astaxantina. La sua capacità antiossidante è risultata cento volte maggiore della vitamina E e dieci volte superiore rispetto agli altri carotenoidi ed è relativa alla peculiare struttura chimica che le consente di intercalarsi nella membrana cellulare contrastando i fenomeni ossidativi che avvengono sia in superficie che nell’intero strato di rivestimento, proteggendo così la cellula.
Radicale libero: molecola instavbile che causa danni cellulari

Eccone i principali meccanismi con cui opera l’Astaxantina:

  • Quenching, ovvero spegnere la reattività di specie reattive dell’ossigeno (ROS) ritornando a una conformazione in grado di stabilizzare ulteriori radicali.
  • Scavenger, letteralmente “spazzino”, in virtù della capacità di interrompere reazioni a catena che possono verificarsi sia nella membrana cellulare che nelle lipoproteine (la cui ossidazione porta alla formazione di precipitati che nel tempo si depositano nel lume dei vasi sanguigni, ostruendoli).
  • Modulazione dell’espressione genica in favore di enzimi antiossidanti. L’astaxantina sembra infatti essere in grado di stimolare l’attivazione di sequenze genetiche che predispongono alla produzione di sistemi antiossidanti quali la Superossido dismutasi (SOD), la Catalasi e il Glutatione, rinforzando così l’arsenale antiossidante della cellula
  • Inibizione della produzione di citochine infiammatorie.

 

AZIONE PROTETTIVA CUTANEA E CONTRO IL FOTOINVECCHIAMENTO

raggi UVA e UVB causano il fotoinvecchiamento

Quando si parla di invecchiamento cutaneo è bene distinguere fra invecchiamento intrinseco, relativo all’età anagrafica e inevitabile, e il fotoinvecchiamento, conseguente agli stress che la cute subisce per esposizione ai raggi solari.
Benché utili ai fini della produzione di Vitamina D, le radiazioni solari portano con sé l’inconveniente di possibili alterazioni o danni alle cellule cutanee. Nel complesso, queste radiazioni sono costituite da raggi ultravioletti di due tipi: i raggi UV-B, che hanno maggiore contenuto energetico ma penetrano solo in superficie, non superando la barriera dell’epidermide e i raggi UV-A, a contenuto energetico minore ma con maggiori capacità di penetrazione (derma).
L’invecchiamento non cronologico comporta rughe di ampiezza e profondità maggiori rispetto all’invecchiamento intrinseco, nonché discromie (macchie) e teleangctasie (capillari) negli strati superiori della pelle, mentre negli strati profondi si verificano riduzione di collagene, perdita di tono ed elasticità.
Il meccanismo con cui il sole danneggia la pelle è secondario alla produzione di radicali dell’ossigeno, che a loro volta inducono la sintesi di mediatori infiammatori e la conseguente attivazione di enzimi, le Metalloproteasi, responsabili della degradazione del tessuto cutaneo. Proprio allo scopo di contrastare questi fenomeni, l’astaxantina è salita alla ribalta grazie alle sue innegabili proprietà, surclassando composti già di per sé importanti quali il beta-carotene e il licopene.
Grazie alla capacità di inibire la produzione di enzimi quali collagenasi e elastasi, di evitare fenomeni di apoptosi (morte cellulare programmata) successiva a stimoli infiammatori, nonché a tutti i meccanismi già citati come antiossidante, l’astaxantina si è quindi guadagnata l’appellativo di super-molecola anti-invecchiamento, risultando così l’integratore più indicato per proteggere la pelle dai danni del sole durante l’intera esposizione della stagione estiva.

Farmacia di Montelupone

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Genetica ed Epigenetica: predestinazione o libero arbitrio in ambito biologico?

Genetica ed Epigenetica: predestinazione o libero arbitrio in ambito biologico?

Dott. Roberto Moneta

Dott. Stefano Moneta

Genetica ed Epigenetica: predestinazione o libero arbitrio in ambito biologico?
Sono trascorsi pochi giorni dal 67mo anniversario della scoperta del Dna. Era il 25 aprile 1953 e Watson e Crick, poi insigniti del Premio Nobel, presentavano al mondo la famosa doppia elica. Da allora in poi le conoscenze si sono ampliate e l’intero codice genetico umano, all’epoca continente inesplorato, è stato mappato.
Tutti noi conosciamo il DNA, quantomeno per sentito dire. Basta accendere la tivù su un poliziesco. È la parte delle nostre cellule che “parla di noi”, che ci definisce in contrapposizione agli altri, che certifica la nostra unicità. Tant’è che la scientifica lo usa come prova.

Ma cos’è, precisamente, il Dna e cosa stabilisce?
È una molecola complessa e misteriosa che ha dato adito a una forte spaccatura fra gli scienziati.
Alcuni, come il suo scopritore Crick, hanno generato una corrente di pensiero detta “riduzionista” secondo cui la vita non sarebbe altro che la trasposizione delle informazioni genetiche sul piano biologico. Altri, capitanati da Waddington, hanno portato avanti un’idea “sistemica”, in cui le informazioni rappresentano solo una parte della vita, la quale non è predeterminata, ma scaturisce dall’interazione fra l’individuo e il suo ambiente.
Prima di inoltrarci nel dibattito, però, conosciamo meglio questa molecola.
Il DNA
Tecnicamente è l’acido desossiribonucleico, presente nel nucleo di ognuna delle nostrecellule. La struttura è a due filamenti intrecciati tenuti insieme da legami chimici specifici. È costituito da quattro tipi di basi azotate che si ripetono per tutta la lunghezza, ognuna unita a uno zucchero e a gruppi atomici contenenti fosforo. Le basi sono sempre legate a coppie: la citosina con guanina e l’adenina con la timina. Il Dna racchiude tutte le informazioni all’interno dei cromosomi (agglomerati di Dna) a loro volta suddivisibili in geni, porzioni più o meno lunghe di sequenze di basi.
Se volessimo fare un’analogia, potremmo pensare al Dna come alla tastiera di un pianoforte e alla variabilità infinita delle sue informazioni come alle musiche chepotrebbero essere suonate. Le note sono le stesse, ma la melodia può essere molto diversa.
Ciò significa che pur essendo ristretto il materiale di partenza (in termini di tipologie di basi, non di numero di combinazioni!), da quello stesso materiale possono scaturire prodotti infiniti.
Il Dna umano è costituito da circa tre miliardi di basi azotate. Sì, tre miliardi, avete capito. Ma come si passa dalla chimica a qualcosa di vivo? Come si traduce una sequenza di basi in un organismo vivente?
Serve qualcuno che suoni il pianoforte.
RNA messaggero (mRNA)
L’Rna (acido ribonucleico) è ”il fratello” del Dna, ma con struttura e funzioni ben distinte. Intanto è un singolo filamento e il suo compito non è di “contenere” le informazioni bensì di renderle accessibili, affinché vengano convertite in proteine.
L’informazione contenuta nel Dna di per sé sarebbe inutile, un po’ come la tastiera se nessuno la suona. Per sopperire a ciò, quando la cellula ne ha necessità (riproduzione, stimoli metabolici, biochimici e ambientali) entra in funzione un enzima che taglia e separa un tratto dei due filamenti e, prendendo come stampo una sequenza di basi, su di essa costruisce un filamento di RNA.
Terminato il processo, il Dna viene “ricucito” e l’Rna innesca la sintesi proteica, come in una catena di montaggio. La proteina svolgerà la sua funzione, la stessa che era “quiescente” nel Dna.
TEORIA RIDUZIONISTA
La corrente di pensiero conseguente alla scoperta di Watson e Crick viene detta riduzionista o anche determinista, perché “declassa” la vita ad una sequenza di informazioni archiviate negli acidi nucleici.
Ogni caratteristica di un vivente corrisponde a un gene del suo Dna (sequenza di basi).
Citando Bottaccioli, secondo tale visione “ si presuppone che le cause e gli effetti siano legati da leggi lineari che possono essere invertite nel tempo e che quindi consentano di ricostruire all’indietro le condizioni iniziali di un fenomeno.. “ e poi ancora “ ..la ricerca delle cause segue la procedura analitica che consente di scendere dal complesso al semplice con l’obiettivo di trovare a questo livello i determinanti molecolari “.
Come dire, conoscendo il gene si può prevederne il prodotto e, nel caso sia esso qualcosa di patologico, intervenire preventivamente.
Ciò significa che è possibile stabilire in anticipo quali caratteristiche svilupperà un individuo in ogni ambito del suo essere: biologico, patologico, psicologico e comportamentale. Proprio questo scopo è stato centrale per il cosiddetto “Progetto Genoma”, l’ambizioso sogno dei genetisti dei primi anni Duemila che si sono adoperati per conoscere il Dna in ogni suo frammento. L’idea era appunto di scovare, nelle sequenze geniche, i singoli tratti di una caratteristica e di identificarla attraverso uno studio allargato su un numero il più possibile ampio di campioni.
Vi faccio un esempio: la depressione (ma avrei potuto scegliere il diabete, l’autismo, la fibrosi cistica o qualsiasi altra problematica).
Se volessi sapere se esista un rapporto tra depressione e un determinato gene (e quindi effettuare mosse preventive) non dovrei far altro che raccogliere campioni genetici di pazienti depressi e confrontarli con altrettanti campioni di soggetti sani. Evidenziando le difformità, potrei scoprire la causa genetica della malattia.
Questo ovviamente non solo per le patologie, ma per qualunque caratteristica biologica, psicologica e comportamentale (altezza, intelligenza, orientamento sessuale, talento per determinate discipline etc).
L’idea è che il portatore di un determinato gene sviluppi quell’informazione perché “destinato a farlo”, mentre al contrario chi non lo abbia sia tutelato (o sfavorito, se trattasi di potenzialità positiva).
I figli di Brad Pitt e Angelina Jolie, per esempio, saranno anche loro bellissimi?
La risposta è non per forza. (e non solo perché sono adottivi :-))
La teoria riduzionista deve fare i conti con evidenze secondo le quali la maggior parte delle caratteristiche umane (es. l’intelligenza) non fanno capo ad un singolo gene, ma siano “poligeniche” e soprattutto scaturiscano dalle sollecitazioni ambientali, vale a dire da quanto quel gene venga o non venga stimolato ad esprimersi.
L’esempio più lampante sono i gemelli monozigoti (ossia aventi identico codice genetico) i quali, pur essendo individui esattamente uguali, non sviluppano le stesse malattie né le stesse caratteristiche se lo stile di vita è differente. Ciò vuol dire che l’interazione con l’ambiente ha la sua preponderanza. Viene quindi da annuire all’affermazione/battuta secondo cui caratteristiche complesse (come ad esempio il quoziente intellettivo) non facciano capo solo al codice genetico, ma anche a quello postale (non conta solo il dna ma l’educazione, la famiglia, il livello scolastico, economico etc.. ).
Quindi?
Passiamo all’altro lato della medaglia, quello del modello epigenetico.
TEORIA SISTEMICA
Se per il Riduzionismo è il Dna a comandare e la vita si svolge secondo la sequenza Dna -> Rna -> proteina, l’Epigenetica si avvale di prove e scoperte che sgretolano tale teoria.
Per esempio:
  1. di tutto il Dna umano, soltanto l’1% è codificante. Ciò significa che il restante 99% svolge altre funzioni. Basterebbe ricordare che la natura non crea nulla per caso per mettere già in dubbio i paradigmi deterministi.
  2. un singolo gene può codificare per più proteine, non c’è una corrispondenza uno ad uno fra informazione e prodotto finale (splicing alternativo).
  3. microRna. Tipologie di RNA aventi azione inibitoria su altri Rna messaggeri, impedendo quindi al Dna di trasmettere le informazioni.
  4. proteine che attivano o disattivano le sequenze geniche, a riprova del fatto che la cascata non è verticale dal Dna in giù, ma avviene anche in senso inverso.
Limitandoci al punto uno, la maggior parte del Dna non codifica per proteine ma ha attività biochimica, producendo tipologie di RNA con funzioni regolatorie ed epigenetiche, funzioni che sarebbero alla base dei meccanismi evolutivi.
Pensiamo ad esempio al rapporto fra uomo e scimpanzè. Concordando sul fatto che a volte la differenza è sottile (e non per merito degli scimpanzé), nonostante una sovrapponibilità della quasi totalità del genoma, possiamo affermare con relativa certezza che si tratta di esseri completamente diversi.
In termini numerici, dei famosi tre miliardi di basi, soltanto 30 milioni (l’1%) si differenziano fra le due specie. Ciò vuol dire che non contano i singoli geni, quanto la loro espressione. Veniamo dunque all’epigenetica.
EPIGENETICA
È lo studio dei cambiamenti dell’espressione genica non determinati da mutazioni e che possono essere ereditabili.
In parole accessibili: nel Dna sono racchiuse potenzialità evolutive che l’individuo può mettere in campo qualora l’ambiente lo stimoli a farlo; tali potenzialità possono essere trasmesse alle generazioni successive.
L’Epigenetica quindi descrive una serie di cambiamenti adattativi che possono essere sia fisiologici che patologici. Tali cambiamenti sono reversibili.
Gli effetti dell’epigenetica sono riscontrabili in tutte le fasi di vita di un organismo, a partire dalla fecondazione, continuando nell’embrione e poi nell’individuo pienamente formato e adulto.
La segnatura dettata dai meccanismi epigenetici andrebbe considerata come un nuovo assetto cellulare (funzionale o disfunzionale) che passa alle generazioni successive quando la cellula si divide. Tale assetto si stabilisce come risposta adattativa alle sollecitazioni ambientali.
Essendo preponderante l’interazione con l’ambiente (dove per ambiente è da intendersi non solo il contesto fisico in cui si vive, ma l’alimentazione, l’attività fisica, i rapporti umani di ogni tipo, la gestione dello stress, le emozioni etc.) va da sé che migliorarlo ha un impatto positivo sulla qualità della nostra salute.
Ecco perché oltre alle cure chimiche classiche prendono sempre più piede le cosiddette cure alternative, quelle che mirano a ristabilire l’equilibrio psico-emotivo dell’individuo.
Tanto per fare un esempio siamo circondati da decine di prodotti chimici (inquinanti, pesticidi, tensioattivi, conservanti e chi più ne ha più ne metta) che oltre a determinare tossicità diretta hanno la spiacevole caratteristica di agire in maniera più sottile, ossia a livello epigenetico. Sono quelle sostanze che la scienza definisce “Endocrine Disruptors”, che a lungo andare perturbano il funzionamento del sistema nervoso, endocrino ed immunitario.
E il danno non è solo per noi. Come anticipato, i cambiamenti epigenetici possono essere ereditabili e quindi trasmessi alle generazioni figlie (non ci stiamo intossicando soltanto noi, ma anche gli uomini di domani).
Se poi facciamo mente locale e ci rendiamo conto che ad ogni emozione che proviamo, il nostro cervello produce sostanze chimiche che hanno azioni a cascata su tutto l’organismo, viene da fare una considerazione.
L’ansia, la paura, la rabbia, la tristezza (..la lista è lunga.. ) possiamo percepirle fisicamente. Ci batte il cuore, si chiude lo stomaco, si gonfiano le vene, sale la pressione.. Questo perché produciamo trasmettitori che attivano determinate funzioni cellulari.
Più l’emozione è persistente, più le cellule si abituano sul nuovo assetto, che tenderà a divenire stabile e preferenziale ( ossia in condizioni simili, anche se meno intense, la cellula sceglierà quel tipo di reazione perché “abituata così” ) e trasmissibile. In letteratura fioccano studi sull’animale da laboratorio sottoposto a condizioni di stress la cui ansia o minore socialità si diffonde fino a tre generazioni con marcatura epigenetica. Non sono pochi nemmeno quelli inerenti la gravidanza o le prime fasi di vita di un neonato in cui “l’assetto emozionale” della madre in primis e della famiglia poi incide epigeneticamente sul nascituro, modulando l’asse dello stress in maniera scientificamente rilevabile.
La raccomandazione dietro a tali considerazioni è facilmente intuibile.
Se è l’ambiente a modulare il Dna e non il contrario, prendiamocene cura.
CONCLUSIONI
Quindi, che la pensiate come Crick – la vita è programmata nel codice genetico, siamo inscatolati nel nostro DNA – o come Waddington – la vita prende appunti sul genoma man mano che scorre – il mio consiglio è di curare il vostro ambiente.
È lo stile di vita che fa la differenza, un concetto in continua espansione. Se fino a qualche tempo fa ci si riferiva facendo menzione più che altro di alimentazione e attività fisica (la cui rilevanza permane), oggi sempre più scienziati e medici vi accorpano tutto ciò che fa parte dell’esistenza di una persona e che incide sul suo tenore.
Da quando l’uomo è comparso su questo pianeta ha sempre fatto i conti con il suo ambiente, ha modellato la natura e ne è stato modellato. L’interazione dura da millenni e durerà tutto il tempo in cui continueremo a popolare la Terra.
Negarlo equivale a bendarsi gli occhi, di qui il mio consiglio:
meditate, praticate ciò che vi appaga, ascoltate musica, scegliete il lavoro che fa per voi, frequentate persone a voi affini, limitate le preoccupazioni, insomma, vivete una vita il più possibile allineata alla vostra natura e che vi assicuri un benessere a trecentosessanta gradi.
Essere predisposti a una malattia non vuol dire contrarla, ma nemmeno il contrario.
Per la salute vostra e di chi verrà dopo di voi.

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L’infiammazione

L’infiammazione

Dott. Roberto Moneta

Dott. Stefano Moneta

L’INFIAMMAZIONE
Oggi vi voglio parlare di un processo, quello dell’infiammazione, spesso misconosciuto e 

considerato negativo. Quante volte vi siete sentiti “infiammati”, lamentando un certo fastidio ?Quante volte avete maledetto quella parte del corpo che vi faceva male?
Beh, fa tutto parte del gioco, anzi, è stata una fortuna.
Adesso vi spiego perché.
Innanzitutto le presentazioni.
Cos’è l’infiammazione?
È un processo fisiologico, un meccanismo di difesa non specifico che ha come scopo la guarigione e la ripresa funzionale di un tessuto danneggiato.

 

Questo in generale. Scendendo nel particolare posso dirvi che come un seminarista conosce i dieci comandamenti, un farmacista può enunciare i sintomi dell’infiammazione (esame di patologia, terzo anno – almeno ai miei tempi.. ).
Che, nella fattispecie, sono:
Dolor, Rubor, Calor, Tumor e Functio Laesa.
Prima di analizzarli, però,è bene farsi un’idea di cosa accada in realtà quando “qualcosa si infiamma”.
Il primo passo è il danno tissutale.
Mi spiego con degli esempi.
Andate a un concerto e cantate tutta la sera? La gola (il tessuto) si infiamma. State tutto il giorno sotto il sole senza protezione? La pelle (il tessuto) si infiamma. Inciampate e vi storcete una caviglia? Insomma, avete capito.
Una volta avvenuto il danno cosa si verifica? Che i vasi sanguigni di quel determinato punto (distretto, se vogliamo darci un tono) si dilatano e dal torrente circolatorio si riversa una serie di mediatori dell’infiammazione nel tessuto circostante (immaginate una conduttura che perde e che lascia filtrare liquido intorno). Questi mediatori – citochine – servono da richiamo per altre sostanze infiammatorie e nel tempo per cellule del sistema immunitario. In questa maniera si chiariscono i sintomi:
Dolor: la parte infiammata inizia a far male, colpa di sostanze “algogene” (che creano dolore) che sensibilizzano le terminazioni nervose, che a loro volta portano lo stimolo al cervello, rendendolo percepibile (il che è un bene e una protezione, se immaginate di afferrare una padella che scotta e di lasciarla immediatamente proprio per via del dolore).
Rubor: la parte si arrossa, stretta conseguenza del richiamo di sangue che affluisce.
Calor: la parte “si infiamma”, cioè si riscalda, proprio perché il sangue genera calore.
Tumor: si crea edema, ristagno, gonfiore, per via del fatto che si accumula plasma (la cui finalità è anche diluire, cioè rendere inoffensive le eventuali tossine presenti; pensiamo a cosa accade per una puntura di insetto).
Functio laesa: perdita di funzionalità. La voce scompare, la pelle tira, la caviglia non ci permette di appoggiare il piede a terra; in pratica siamo impediti nel fare le cose con normalità.
Ma arrivati a questo punto, possiamo dire che l’infiammazione sia un bene?
Ci vuole un’ulteriore precisazione.
Non esiste un solo tipo di infiammazione, ma ne esistono due.
L’infiammazione acuta e l’infiammazione cronica.
L’infiammazione acuta è quanto vi ho descritto finora. La sequenza è
Danno tissutale, infiammazione, riparazione del danno, guarigione. Il tutto in un ristretto lasso di tempo (qualche giorno). Questo è il processo infiammatorio nel suo svolgimento consueto.
L’infiammazione cronica invece si differenzia per la durata, molto maggiore e per il peggioramento progressivo del problema, proprio perché la mancata guarigione prolunga i tempi e incrementa le difficoltà di risoluzione. Questo tipo di infiammazione si verifica in determinate patologie o condizioni cliniche ma anche in virtù del fatto che a volte l’infiammazione acuta non viene “gestita” nel modo corretto.
In questo caso si instaura un circolo vizioso fra danno e riparazione. Le cellule deputate alla risoluzione del problema (immunitarie) possono diventare la causa stessa del danno (un esempio sono le patologie autoimmuni, in cui tali cellule non distinguono fra ciò che devono distruggere e ciò che devono preservare). In altri casi è il processo acuto che viene interrotto perché viene stroncato anziché essere “supportato”.
Mi dilungo in una breve anticipazione di un articolo che pubblicheremo prossimamente accennando al fatto che già di per sé, ogni giorno, noi ci infiammiamo continuamente. Il nostro organismo consuma risorse e distrugge tessuti, mentre li ripara e reintegra le sostanze di sera. L’infiammazione è un meccanismo fisiologico che si verifica anche quando non sentiamo sintomi (ovviamente in maniera più lieve). Senza infiammazione andremmo in uno stato di continua usura, capite quindi che è consigliabile “favorire” l’infiammazione anziché contrastarla.
Farmaci antinfiammatori.
Li abbiamo usati tutti, alcuni di noi ne abusano.
Finalità? Disinfiammare, toglierci di dosso quei fastidiosi sintomi di cui vi ho parlato all’inizio. Ne esiste un’ampia gamma, sono i cosiddetti FANS – farmaci antinfiammatori non steroidei.
Inibitori della COX (ciclossigenasi)
Questi farmaci esercitano un’azione di blocco (inibizione) su una proteina, la Ciclossigenasi, un enzima che partecipa ai meccanismi infiammatori producendo sostanze chiamate prostaglandine a partire dall’acido arachidonico, presente nelle membrane cellulari.
Inibire la COX significa fermare sul nascere l’infiammazione, riducendo gran parte dei sintomi ad essa correlati (dolore, febbre, aggregazione piastrinica). Il problema nasce da un fatto: la COX esiste in più forme (varianti), ognuna con specifiche caratteristiche.
La COX-1 è presente in molti tessuti e sempre attiva anche in condizioni di omeostasi. Il suo è un ruolo regolatore a livello gastrointestinale, renale e piastrinico (fluidificazione del sangue); la COX -2 invece si attiva solo in corso di infiammazione per generare appunto mediatori infiammatori. La maggior parte dei FANS blocca non selettivamente la COX-1, con la conseguente comparsa di effetti collaterali piuttosto noti (su tutti, la gastrite da antinfiammatori). Fanno parte di questa classe: acido acetilsalicilico, ibuprofene, naprossene, ketoprofene e altri. Nel tempo sono stati creati degli inibitori selettivi della COX-2, il cui utilizzo però non è libero ma subordinato a prescrizione medica; questi farmaci bloccano selettivamente l’enzima attivo solo in corso di infiammazione e vengono utilizzati nella cura di patologie croniche dovute ad infiammazione.
Caso a parte è quello del paracetamolo che esplica più che altro azione antipiretica (riduzione della febbre) e analgesica. La sua azione antinfiammatoria ridotta lo rende sì meno potente rispetto agli altri ma anche più sicuro e meno tossico (ricordiamo comunque che viene metabolizzato a livello epatico, per cui occorre non abusarne). Un suo sicuro pregio è la non interferenza nei processi fisiologici di recupero dal danno.
Quindi cosa è opportuno fare?
Distinguiamo.
Se la patologia è importante, cronica, o se i sintomi acuti sono seri, parola al medico e fine del discorso.
Se però il fastidio è lieve e non comporta più di uno sforzo di sopportazione, forse non è una cattiva mossa decidere di non neutralizzarlo. Il presupposto è che il corpo sa cosa fare molto meglio di quanto pensiamo di saper fare noi. Inoltre, riducendo la quantità e la frequenza di uso di farmaci, ci restano due vantaggi: meno chimica nell’organismo (con sentiti ringraziamenti da parte di fegato, stomaco e reni in primis) e maggiore efficacia al momento di un trattamento futuro (se a ogni minimo dolore buttiamo giù una pasticca, a lungo andare non ne trarremo lo stesso beneficio e tenderemo ad abusarne).
D’altro canto esistono numerosi prodotti ad azione antinfiammatoria di origine naturale (arpagofito, arnica, boswellia, mirra etc.. ) combinati in maniera tale da ridurre l’incidenza del sintomo senza però interferire sul processo di recupero. Ricorrere a prodotti simili anziché ai classici FANS può essere una valida strategia, magari consigliati sul come e sul quando da chi qualcosina la sa (dottor internet e i farmacologi della porta accanto lasciamoli stare), senza snobbare per partito preso l’omeopatia, che quanto ad efficacia regge spesso il confronto, per di più senza noie collaterali.
Un’ultima considerazione a parte sugli ENZIMI PROTEOLITICI
Un valido aiuto per accelerare la risoluzione di un’infiammazione sono queste sostanze di origine naturale, le più famose BROMELINA e PAPAINA.
La prima viene estratta dall’Ananas, la seconda dalla Papaya; entrambe hanno la capacità di “digerire” i detriti infiammatori, quell’accumulo di sostanze che si crea durante il processo di guarigione e che, se non rimosso nei tempi giusti, innesca il circolo vizioso dell’infiammazione cronica. Queste sostanze aiutano ad eliminare il ristagno di liquidi che crea edema e dolore attraverso un meccanismo in cui è coinvolta una proteina plasmatica, l’alfa-Marcoglobulina.
Si tratta di una proteina ubiquitaria che circola nel sangue ed è adibita al trasporto di sostanze pro-infiammatorie. Queste sostanze vengono “catturate” da questa proteina, che le lega e le rimuove dal sito infiammatorio proprio grazie all’azione di bromelina e papaina, che agganciandosi alla struttura proteica ne modificano la conformazione aumentandone l’affinità per le prostagliandine.
Spesso snobbati – o peggio, non conosciuti – questi due enzimi risultano di notevole aiuto nella cura di patologie infiammatorie con il non trascurabile vantaggio di favorire anche la digestione gastrica, solitamente complicata dall’impiego dei farmaci antinfiammatori. Affiancarli a una cura sintomatica non è solo una mossa utile, ma intelligente.

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DIFESE IMMUNITARIE: PERCHÉ ADESSO?

DIFESE IMMUNITARIE: PERCHÉ ADESSO?

Quando il nostro scopo è la prevenzione di una patologia o la modulazione di un sistema, è necessario iniziare il trattamento con il giusto anticipo, dando all’organismo il tempo di adattarsi e di mettere in atto le dovute risposte. Prepararsi a fronteggiare l’inverno, però, non sempre è sufficiente, se non si dispone di difese performanti già durante la mezza stagione, sempre più caratterizzata da temperature che oscillano tra alti e bassi e bruschi cambiamenti climatici. Tutto questo richiede al nostro corpo continui adattamenti e regolazioni, con conseguente dispendio di risorse e di energie.

Il freddo è uno degli agenti “stressanti” più comuni. Può essere considerato alla stregua di uno stress
in quanto costringe l’organismo ad alzare il proprio livello di performance, proprio come un esame o
un periodo più impegnativo di lavoro. Per tutta la durata dell’esposizione allo stress, l’organismo
risponde attivando gli ormoni stress-correlati e innescando meccanismi “di sopravvivenza”.
Terminata la fase di performance il sistema va in recupero per ripristinare quello che è stato
consumato nella fase precedente, ma per farlo dovrà avviare un processo infiammatorio, che sarà
più o meno intenso, proporzionalmente allo stress iniziale. Tanto più forte sarà stato lo stress, tanto
più violenta sarà l’infiammazione. E allo stesso modo , tanto più duraturo sarà stato lo stress,
altrettanto lo sarà la fase infiammatoria. Cosa comporta in questo frangente ricorrere all’uso di
farmaci antinfiammatori? Ciò che apparentemente potrebbe sembrare la soluzione del problema in

realtà si rivela una trappola. Spegnere il processo infiammatorio mette a tacere i sintomi, ma
impedisce al tessuto di completare il recupero, rendendolo più suscettibile ad ulteriori lesioni e
costringendo l’organismo a ripetere successivamente il processo infiammatorio nell’intento di
completarlo ( ecco il perché delle recidive ).
Ricordiamo inoltre che parallelamente all’infiammazione potranno svilupparsi sovrainfezioni virali o
batteriche, favorite dal ristagno di liquidi e di sostanze ad azione trofica nel tessuto interessato.
È ormai chiaro che preservare il benessere di una persona non significa semplicemente non farla
ammalare, ma garantire al suo organismo un equilibrio funzionale, molto più facile da mantenere che da ripristinare.

Ultimi spunti di riflessione sull’argomento
Il crescente e smodato uso di antibiotici sta creando grande preoccupazione a causa
dell’instaurarsi della resistenza. I batteri diventano sempre più refrattari all’effetto dei farmaci ,
provocando così infezioni difficili da debellare. L’Italia nella fattispecie detiene il primato a livello
europeo per numero di decessi dovuti ad antibiotico-resistenza. Si stima che ogni anno siano
10mila i morti per questo motivo e che per il 2050 le infezioni batteriche saranno la principale
causa di decesso. Paradossalmente anche chi non ha mai assunto antibiotici corre il rischio di
contrarre infezioni da batteri resistenti.
Allo stesso modo i vaccini antinfluenzali ogni anno ottengono una percentuale di insuccessi più o
meno alta ( stimata intorno al 35% ). Chiediamoci il perché. Come fa un vaccino creato con mesi di
anticipo ad offrire copertura nei confronti di virus soggetti a mutazioni?

A cosa servono gli anticorpi se non sono specifici per il nemico che si sta combattendo? Senza dimenticare che non tutte le patologie invernali con tropismo per le vie respiratorie vengono schermate dal vaccino

( otiti, tracheiti, tonsilliti ).
Ancora una conferma che la strategia vincente non potrà mai provenire dall’esterno, ma dovrà
stimolare sapientemente le nostre risorse innate.

Dott. Stefano Moneta

DIFESE IMMUNITARIE: PERCHÉ ADESSO?

Quando il nostro scopo è la prevenzione di una patologia o la modulazione di un sistema, è necessario iniziare il trattamento con il giusto anticipo, dando all’organismo il tempo di adattarsi e di mettere in atto le dovute risposte. Prepararsi a fronteggiare l’inverno, però, non sempre è sufficiente, se non si dispone di difese performanti già durante la mezza stagione, sempre più caratterizzata da temperature che oscillano tra alti e bassi e bruschi cambiamenti climatici. Tutto questo richiede al nostro corpo continui adattamenti e regolazioni, con conseguente dispendio di risorse e di energie.

Il freddo è uno degli agenti “stressanti” più comuni. Può essere considerato alla stregua di uno stress
in quanto costringe l’organismo ad alzare il proprio livello di performance, proprio come un esame o
un periodo più impegnativo di lavoro. Per tutta la durata dell’esposizione allo stress, l’organismo
risponde attivando gli ormoni stress-correlati e innescando meccanismi “di sopravvivenza”.
Terminata la fase di performance il sistema va in recupero per ripristinare quello che è stato
consumato nella fase precedente, ma per farlo dovrà avviare un processo infiammatorio, che sarà più o meno intenso, proporzionalmente allo stress iniziale. Tanto più forte sarà stato lo stress, tanto più violenta sarà l’infiammazione. E allo stesso modo , tanto più duraturo sarà stato lo stress, altrettanto lo sarà la fase infiammatoria. Cosa comporta in questo frangente ricorrere all’uso di farmaci antinfiammatori? Ciò che apparentemente potrebbe sembrare la soluzione del problema in realtà si rivela una trappola. Spegnere il processo infiammatorio mette a tacere i sintomi, ma impedisce al tessuto di completare il recupero, rendendolo più suscettibile ad ulteriori lesioni e costringendo l’organismo a ripetere successivamente il processo infiammatorio nell’intento di completarlo ( ecco il perché delle recidive ).
Ricordiamo inoltre che parallelamente all’infiammazione potranno svilupparsi sovrainfezioni virali o
batteriche, favorite dal ristagno di liquidi e di sostanze ad azione trofica nel tessuto interessato.
È ormai chiaro che preservare il benessere di una persona non significa semplicemente non farla ammalare, ma garantire al suo organismo un equilibrio funzionale, molto più facile da mantenere che da ripristinare.

Ultimi spunti di riflessione sull’argomento
Il crescente e smodato uso di antibiotici sta creando grande preoccupazione a causa
dell’instaurarsi della resistenza. I batteri diventano sempre più refrattari all’effetto dei farmaci ,
provocando così infezioni difficili da debellare. L’Italia nella fattispecie detiene il primato a livello
europeo per numero di decessi dovuti ad antibiotico-resistenza. Si stima che ogni anno siano
10mila i morti per questo motivo e che per il 2050 le infezioni batteriche saranno la principale
causa di decesso. Paradossalmente anche chi non ha mai assunto antibiotici corre il rischio di
contrarre infezioni da batteri resistenti.
Allo stesso modo i vaccini antinfluenzali ogni anno ottengono una percentuale di insuccessi più o
meno alta ( stimata intorno al 35% ). Chiediamoci il perché. Come fa un vaccino creato con mesi di
anticipo ad offrire copertura nei confronti di virus soggetti a mutazioni?

A cosa servono gli anticorpi se non sono specifici per il nemico che si sta combattendo? Senza dimenticare che non tutte le patologie invernali con tropismo per le vie respiratorie vengono schermate dal vaccino

( otiti, tracheiti, tonsilliti ).
Ancora una conferma che la strategia vincente non potrà mai provenire dall’esterno, ma dovrà
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Prevenire le allergie di primavera

Prevenire le allergie di primavera

Come prevenire le allergie primaverili

Ogni anno, in particolare nel periodo che va da marzo a ottobre, quattro italiani su dieci soffrono di allergie primaverili, un disturbo stagionale che fa la sua comparsa in concomitanza con la fioritura delle piante e con l’emissione dei pollini nell’aria.

Mal di testa, occhi arrossati, naso che cola (Rinite allergica), prurito alla gola sono alcune manifestazioni tipiche dell’allergia ai pollini. Nei soggetti particolarmente sensibili, infatti, l’allergia può manifestarsi in maniera più violenta con dermatiti, fastidiose congiuntiviti ed episodi di asma che mettono a dura prova la salute e il benessere dell’intero organismo.
Cosa fare per prevenire e combattere i fastidiosi sintomi dell’allergia ai pollini?

Evitare il fai da te

Ai primi sintomi di Allergia consultare uno specialista per individuare velocemente gli allergeni e stabilire le misure terapeutiche più adatte.

Consultare regolarmente il calendario dei pollini

Consultare regolarmente il calendario dei pollini e le informazioni sugli allergeni della propria località di residenza, ricordando che la fioritura di piante responsabili dei principali allergeni avviene non solo in primavera:

  • Cupressacee: fioriscono da gennaio/febbraio fino a marzo/aprile
  • Parietaria: fiorisce da marzo a ottobre
  • Graminacee: fioriscono da aprile a giugno
  • Olacee: fioriscono da maggio a giugno
  • Composite o Asteracee: fioriscono da luglio a settembre
Mantenere e pulire i filtri e dei condotti di aeratori

Mantenere e pulire i filtri e dei condotti di aeratori, condizionatori e umidificatori non solo per assicurare un regolare funzionamento nel tempo degli impianti ma anche per garantire una maggiore igiene degli ambienti: impianti non sanitizzati, infatti, possono causare problemi alle vie respiratorie in particolare nei periodi di picco degli allergeni.

Allo stesso modo evitare il fumo di sigaretta, sia attivo sia passivo, poiché predisponente alle allergie.
Ridurre la permanenza all’aperto nella stagione dei pollini, in particolare nelle giornate secche e ventose.

Fare attenzione

Fare attenzione a tutti quegli alimenti che possono provocare reazioni crociate e aumentare l’aggressività delle crisi allergiche di chi è più sensibile agli allergeni e ai Pollini.

Attenzione a ortaggi e frutti:

  • Basilico, piselli, more, ortica, melone, ciliegie sono da evitare in caso di allergia alle parietarie.
  • In caso di allergia alle betulacee evitare mele, banane prugne, albicocche, pesche, fragole, ciliegie, nocciole, patate, carote, mandorle, arachidi, pistacchi, finocchi, sedano.
  • Gli allergici alle graminacee dovranno evitare di mangiare meloni e angurie, agrumi, pesche, albicocche, ciliegie, kiwi, pomodori, patate, melanzane, arachidi, mandorle e, più raramente, frumento e cereali (e loro derivati).
  • Chi è allergico alle composite non dovrebbe mangiare meloni e angurie, mele, banane, anice, camomilla, cicoria, prezzemolo, finocchi, sedano e carote.

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Come contrastare il raffreddore

Come contrastare il raffreddore

Come combattere il raffreddore?

Raffreddore, male delle mezze stagioni. Proprio in questo periodo ci attendono dietro l’angolo tosse, mal di gola, naso chiuso e voci rauche. Ma cosa dobbiamo chiedere in farmacia per combattere tutto questo?

Nella stragrande maggioranza dei casi, il raffreddore è un’infezione di semplice risoluzione, che tende a regredire spontaneamente nell’arco di una manciata di giorni; pertanto, non sono necessari trattamenti medici specifici per il raffreddore. Molto spesso in farmacia vengono chiesti prodotti per far passare il raffreddore. In realtà quello che si può fare è alleviare i sintomi del raffreddore, quindi quel fastidio di naso chiuso che non permette di respirare bene. Si può ricorrere a spray locali che vanno usati per un periodo di tempo limitato oppure a delle compresse che servono appunto per alleviare i sintomi del raffreddore.

Cosa Fare
  • Il riposo assoluto accelera i tempi di guarigione dal raffreddore
  • Coprirsi bene prima di uscire di casa con sciarpe e abbigliamento pesante (durante i mesi invernali e nelle stagioni intermedie)
  • Evitare sbalzi termici
  • Utilizzare umidificatori d’ambiente, utili per porre rimedio alla congestione nasale
  • Allattare il neonato preferibilmente con latte materno, importantissimo per rafforzare le sue difese immunitarie
  • Fluidificare il muco: in tal caso, l’irrigazione nasale con soluzioni saline risulta particolarmente indicata
  • Avvalersi dell’ausilio di vaporizzatori nasali od umidificatori, utili per favorire la fluidificazione del muco, dunque la liberazione dal naso chiuso
Cosa NON fare
  • Soffiarsi il naso sempre nello stesso fazzoletto: preferire fazzoletti di carta usa-getta
  • Fumare: il fumo, sia passivo che attivo, sembra inibire le difese immunitarie, predisponendo il soggetto alle infezioni, compreso il raffreddore
  • Assumere antibiotici senza prescrizione medica: a meno che non ci sia un’infezione batterica concomitante (es. mal di gola da streptococco piogene), la somministrazione di antibiotici contro il raffreddore è inutile, inefficace e superflua, dal momento che i patogeni coinvolti sono virus (e non batteri!)
  • Deglutire il muco
  • Dormire poche ore: si osserva che i soggetti che dormono poche ore durante la notte tendono ad ammalarsi più facilmente rispetto a quelli che dormono 6-8 ore per notte
  • Mettere le mani in bocca e nel naso
Cosa Mangiare
  • In presenza di raffreddore, è buona regola preferire alimenti semplici, sani e di facile digeribilità
  • Si consiglia di bere molti liquidi caldi, come tè, latte caldo, brodi e minestre
    Bere molti liquidi per evitare la disidratazione: il raffreddore è spesso accompagnato da episodi di diarrea e vomito
  • Sembra che anche l’abitudine a consumare yogurt con fermenti lattici vivi o comunque probiotici sia un ottimo rimedio per il raffreddore, poiché le difese immunitarie vengono potenziate.
  • Anche gli alimenti ricchi di vitamina C contribuiscono a proteggere l’organismo dal raffreddore
Cosa NON Mangiare
  • Bevande contenenti alcol: sembra che gli alcolici possano peggiorare il gonfiore della mucosa nasale, che spesso accompagna il raffreddore
  • Caffè e bevande contenenti caffeina: pare che questi alimenti predispongano il paziente colpito da raffreddore alla disidratazione
Cure Farmacologiche

Per la cura del raffreddore, non necessariamente è indispensabile assumere farmaci specifici: in genere, la malattia regredisce spontaneamente in pochi giorni. Ad ogni modo, la guarigione può essere velocizzata dall’assunzione ponderata di alcune specialità medicinali:

  • Decongestionanti nasali: Fenilefrina (es. Isonefrine, Fenil CL DYN), pseudoefedrina (es. Actifed, Actigrip), Oximetazolina cloridrato (es. Vicks sinex, Actifed nasale)
  • Farmaci per abbassare la febbre paracetamolo (es. tachipirina, efferalgan), ibuprofene (es. brufen, moment)
  • Antitussivi: nel caso il raffreddore fosse accompagnato anche da tosse. I farmaci più utilizzati a tale scopo sono: destrometorfano (es. Aricodiltosse) e bromexina (es. Bisolvon Linctus)
  • Vitamina C: discutibile l’effetto benefico della vitamina C ad alte dosi (2-10 grammi die, preferibilmente divisi in più dosi) per la cura del raffreddore.
Cure e Rimedi naturali

La suffumigazione è un rimedio naturale particolarmente efficace per velocizzare la guarigione in caso di raffreddore.

I suffumigi arricchiti con oli essenziali ad azione espettorante, disinfettante e balsamica regalano una percezione di conforto immediato dopo l’inalazione del vapore.

  • Eucalipto (Eucalyptus globulus Labill) → proprietà antinfiammatorie, espettoranti, balsamiche
  • Menta (Mentha piperita) → proprietà balsamiche, decongestionanti, anticatarrali
  • Limone (Citrus limon) → proprietà antisettiche
  • Arancio amaro (Citrus aurantium L. var. amara) → proprietà disinfettanti, antinfiammatorie, decongestionanti
  • Rosmarino (Rosmarinus officinalis) → proprietà balsamiche, espettoranti, antiossidanti

Tra gli altri rimedi naturali per il raffreddore non possiamo dimenticare lo straordinario potere terapeutico ricavato dagli estratti di alcune piante, quali:

  • Echinacea (Echinacea angustifolia) → proprietà antivirali, immunostimolanti, antibatteriche, antinfiammatorie (sotto forma di tisana, sciroppo, compresse)
  • Propoli → attività antimicrobica, antimicotica, antivirale
  • Abete (Abies pectinata DC) → proprietà anticatarrali e balsamiche
  • Sambuco (Sambucus nigra) → proprietà diaforetiche ed antinfiammatorie (sotto forma di tisana od infuso)
  • Spirea olmaria → proprietà antinfiammatorie e calmanti
  • Tiglio (Tilia cordata) → proprietà diaforetiche, blandamente sedative
Prevenzione
  • Porre particolare attenzione al lavaggio delle mani e all’igiene personale
  • Pulire i giocattoli dei bambini: i fanciulli tendono ad inserire in bocca tutti gli oggetti, che potrebbero essere sporchi e contaminati
  • Portare con sé salviette disinfettanti o formulazioni liquide specifiche (es. amuchina)
  • Se possibile, evitare di viaggiare in autobus o in treno con i bambini piccoli, molto più soggetti alle infezioni virali
  • Evitare quanto possibile ogni contatto con soggetti influenzati: anche uno starnuto od un colpo di tosse costituiscono veicoli per la diffusione dei virus del raffreddore

 

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